Incontriamo Frank Ostaseski a margine di un seminario di due giorni ospitato dalla Fondazione “Cardinal Gusmini” di Vertova. È un 65enne alto e asciutto, capelli bianchi e uno sguardo che trasmette serenità. È stato invitato per parlare di fronte a una platea di addetti ai lavori, perlopiù operatori e volontari hospice. Il tema è ”il fine vita e le metodologie per essere al servizio del malato in modo consapevole e compassionevole”. Fondatore dello Zen Hospice di San Francisco, direttore del Metta Institute, Ostaseski è uno dei più ascoltati esperti internazionali in materia. Per oltre 25 anni si è occupato di malati terminali e accompagnamento alla morte. Spesso viene in Italia. Per la prima volta è ospite dell’Associazione Volontari e Sostenitori dell’Hospice di Vertova. Lo intervistiamo durante una pausa dei lavori. Ci raggiunge accompagnato dall’interprete. Chiede di cosa vogliamo parlare e poi si accomoda per l’intervista. La prima domanda è sullo Zen Hospice: perché ha sentito il bisogno di fondarlo? “Ho un retroterra molto forte nel buddismo zen – risponde –. E nel buddismo zen viene coltivata la consapevolezza dell’impermanenza e ho pensato che poteva essere un buon modo per mettere insieme il desiderio delle persone di essere ascoltate e la situazione che accadeva. Abbiamo cominciato lavorando con i senzatetto, persone che vivevano per strada, e se potevo essere di qualunque aiuto per queste persone dovevo essere assolutamente chiaro e avere intenzioni assolutamente oneste”. Cerchiamo di capire quali sono stati i principi che ha cercato di applicare in questa sua esperienza, soprattutto nell’accompagnamento dei malati terminali: “Io penso che il morire sia molto più che un evento medico. Penso che sia una questione di relazione con noi, con gli altri, con qualunque idea noi si abbia di una qualche bontà fondamentale dell’universo. Quindi abbiamo la necessità di portare tutto il meglio che la medicina può offrire, ma dobbiamo anche riconoscere l’importanza della relazione nel momento del morire”. Appunto, la relazione. Ci sono persone che si trovano ad accompagnare malati che stanno andando verso la morte. Possono essere professionisti oppure parenti o amici. Quali consigli dare a queste persone? “Penso che sia importante riflettere e pensare alla relazione con la nostra morte. È una scommessa assurda pensare che al momento della morte avremo la forza del corpo, la chiarezza della mente, la stabilità emotiva per fare proprio in quel momento il lavoro che non è stato fatto durante tutta la vita. E quindi è un’indagine che dobbiamo fare adesso, in questo momento: dobbiamo capire qual è la nostra relazione con la morte prima di trovarci davanti ad essa. Solo in questo modo potremo essere d’aiuto agli altri, potremo accompagnarli senza un sovraccarico inutile di paure e di fatica”. Ostaseski ci vuole dire che anzitutto dobbiamo prepararci alla nostra morte. Ma spesso la morte è un pensiero che allontaniamo, che rimandiamo nel tempo. Non è facile prendere consapevolezza che anche la nostra vita è destinata a finire. “Anche se noi sappiamo che questa esperienza accade a tutti e la vediamo accadere agli altri, in qualche modo pensiamo che non debba accadere a noi – commenta -. È abbastanza naturale aver paura della morte. Ma c’è anche questa sorta di superstizione: crediamo che se pensiamo alla morte in qualche modo la invitiamo, in qualche modo potrà riguardare anche noi. Ma non possiamo semplicemente goderci il tramonto di sera e vivere fino al giorno dopo? Ogni cosa va e viene e avere consapevolezza di questo fatto ci può portare gioia e libertà e non tristezza”.
di