Notizie

Cambiamenti climatici, “non è solo colpa dell’uomo”

I cambiamenti climatici sono causati dall’attività antropica: sembra ormai un assunto, come un fenomeno inquadrabile in un rapporto causa-effetto. Eppure secondo alcuni ricercatori la relazione tra l’aumento della temperatura e l’attività dell’uomo non è così inconfutabile, tanto che tra gli scienziati cresce il gruppo dei così detti “scettici”. Se così fosse la decarbonizzazione in atto, che aggrava i costi dell’energia, potrebbe rivelarsi svantaggiosa per chi la persegue e foriera della delocalizzazione di industrie in paesi che non hanno aderito ai protocolli di riduzione delle emissioni. Secondo Ernesto Pedrocchi, Professore Emerito di Energetica al Politecnico di Milano, il campo lascia ancora molto spazio alla discussione.

Ernesto Pedrocchi
Il professore Ernesto Pedrocchi

Certo, è difficile sostenere queste teorie proprio durante questo inverno. Per parlarne a Rovetta domenica è in programma una serata dal titolo: “Il clima che cambia, ma è tutta colpa dell’uomo?” che si terrà domenica 3 gennaio alle ore 20,30 presso la sala conferenze del centro museale di Rovetta. L’incontro ha il patrocinio del comune di Rovetta, dell’ufficio turistico dello Iat, del Circolo Culturale Baradello e dell’Unione dei Comuni della Presolana.

Il professore Ernesto Pedrocchi ci anticipa in questa intervista alcuni contenuti dell’incontro.

Sono le emissioni di CO2 antropica che fanno aumentare la concentrazione di CO2 in atmosfera?

Non si dimentichi che la CO2 antropica costituisce solo ora il 5% delle totali immissioni di CO2 in atmosfera. Ci sono dei dati che meritano la nostra attenzione. La concentrazione di CO2 in atmosfera ha iniziato a crescere dopo un periodo di relativa stabilità alla fine del 1700, ben prima che ci fossero significative emissioni antropiche (vedi dati dell’Intergovernmental Panel on Climate Change “IPCC” e dell’Hadley Centre for Climate Prediction and Research). Si rileva peraltro che la concentrazione di CO2 aumenta egualmente, salvo lievi fluttuazioni stagionali, nei due emisferi, mentre le emissioni antropiche sono per il 90% concentrate nell’emisfero nord addirittura sopra il tropico del cancro. E’ noto che la barriera equatoriale non permette facilmente scambi tra l’atmosfera dei due emisferi e solo i gas e il particolato leggero a vita abbastanza lunga riescono col tempo a passare da un emisfero all’altro. Questo è confermato dalle eruzioni vulcaniche che praticamente limitano i loro effetti nell’emisfero in cui c’è stata l’eruzione, ma è anche più rigorosamente provato dal fatto che esplosioni per test di bombe atomiche avvenute nei primi anni ’60 nell’emisfero nord (Siberia) hanno causato un picco di concentrazione nell’emisfero nord di CO2 con un isotopo (C14) che solo dopo una decina d’anni è tornato al livello dell’emisfero sud. Recentemente i dati di concentrazione di CO2 rilevati dalla NASA con sistemi satellitari (progetto OCO2) mostrano che la massima concentrazione di CO2 è posizionata sopra l’Amazzonia, la zona sud dell’Africa e la Nuova Guinea, tutte nell’emisfero sud. In base a queste semplici constatazioni si può affermare che ci sono evidenze che fanno pensare che le emissioni antropiche non incidano o incidano molto poco sulla crescita della CO2 in atmosfera.

È l’aumento di concentrazione di CO2 che causa la variazione della temperatura media globale?

È importante rilevare che dal 2000 al 2014 la temperatura media mondiale non cresce più, malgrado la crescita continua della concentrazione di CO2 in atmosfera. Nessuno però vuole affermare che la CO2 non sia un gas con effetto serra e che l’aumento della sua concentrazione in atmosfera potrebbe causare l’aumento di temperatura. Tuttavia, c’è un aspetto interessante che sfugge a molti, le serie storiche relative alle glaciazioni degli ultimi 500.000 anni evidenziano che in generale è l’aumento di temperatura che precede l’aumento di concentrazione di CO2 in atmosfera e non viceversa. Questo è conseguente il fatto che l’entrata e l’uscita dalle glaciazioni è sempre legato ai fattori orbitali tra sole e terra. In particolare ciò è ben chiaro dall’andamento delle due grandezze da 20.000 a 10.000 anni fa all’uscita dell’ultima glaciazione. In questo caso si vede chiaramente che l’aumento di concentrazione di CO2 segue quello di temperatura e il suo avvento non comporta nessuna accelerazione nell’aumento della temperatura. Anche da un recente approfondito studio (O. Humlum e altri) si rileva che negli ultimi 30 anni, da quando la temperatura viene misurata con grande accuratezza, è la variazione di temperatura che precede e condiziona la variazione di concentrazione di CO2 in atmosfera e non viceversa. Questi dati permettono di pensare che non vi è alcuna prova convincente che l’aumento di concentrazione di CO2 in atmosfera giochi un ruolo significativo sull’aumento della temperatura media mondiale.

E quindi qual è l’imputato principale delle variazioni del nostro clima?

Ci sono diversi fattori naturali che condizionano il clima terrestre. In particolare c’è il sospetto fondato, seppur non certo, che il sole possa essere il driver principale del clima terrestre. In particolare i cicli delle macchie solari sembrano avere condizionato il clima degli ultimi millenni. Ne risulta che allo stato attuale delle conoscenze il clima terrestre è un fenomeno estremamente complesso che l’uomo non è riuscito ancora a chiarire.

E quanto si sta facendo per far decrescere la concentrazione di CO2 è la strategia giusta per fronteggiare i cambiamenti climatici?

La strategia della mitigazione ha come obiettivo la riduzione delle emissioni antropiche di CO2 (decarbonizzazione del settore energetico), questo si persegue tramite risparmio ed efficienza nella gestione dell’energia, sostituzione dei combustibili fossili con fonti che emettono meno CO2, quali le rinnovabili, il nucleare e, forse, sistemi di cattura e sequestro delle emissioni di CO2 prodotte dai combustibili fossili. Ovviamente l’obiettivo deve essere il contenimento della eventuale crescita della temperatura media globale, il contenimento delle emissioni antropiche di CO2 per sé non può essere l’obiettivo, salvo che ci sia assoluta certezza che esse siano la causa principale dell’aumento di temperatura media globale. Questa allo stato attuale non esiste. In ogni caso, anche ci fosse questa certezza, la strategia della mitigazione è poco efficace (con il 20% delle riduzioni previste al 2020 in UE si riducono le emissioni antropiche totali di meno del 3% e le emissioni totali di meno dello 0,1%). Inoltre la strategia della mitigazione è difficilmente percorribile perché sarebbe necessario un accordo che coinvolga tutti, ma è impensabile trovare un accordo condiviso da tutte le nazioni. Se alcune importanti non aderiscono all’intesa, diventano attraenti sedi per installazioni di produzioni energivore. Si potrebbe al limite verificare che a pari fabbisogno energetico mondiale le emissioni antropiche di CO2 aumentino. Si può concludere che la strategia della mitigazione non è una soluzione praticabile.

E gli accordi internazionali che sono stati presi che valore hanno?

Cionostante in concomitanza con la conferenza di Parigi si è assistito sui media a una pressing parossistico sulla necessità di un accordo molto vincolante sul contenimento delle emissioni antropiche di CO2. Si prospetta questa come l’ultima occasione per salvare la Terra da una devastazione climatica. In questa campagna mediatica c’è una gara a chi la spara più grossa, ma regna sovrana la disinformazione proporzionale al tasso di allarmismo dei messaggi. L’accordo raggiunto è stato magnificato come un traguardo importante e storico che cambierà il mondo. Gli ambientalisti e il settore della green economy avrebbero voluto l’imposizione di limitazioni alle emissioni; i paesi in via di sviluppo rivendicavano delle compensazioni dai paesi sviluppati per ipotetici danni subiti in passato. La realtà è diversa: l’accordo, un sofisticato esercizio burocratico, è stato imposto dagli US con l’obiettivo prioritario che non contenesse obiettivi vincolanti di riduzione delle emissioni e di compensi economici, perché ciò avrebbe esposto l’Amministrazione US alla verifica del Congresso con la maggioranza a 2/3, con quasi certa bocciatura. Questo risultato ha reso furenti gli ambientalisti, anche L’UE voleva un accordo più vincolante, ma per non mettere in difficoltà Obama, obtorto collo, ha dovuto appoggiare la richiesta dell’Amm. Obama. L’accordo si è poi derubricato a un vincolo sull’aumento di temperatura globale media (2°C /1,5°C), questo è un vincolo fittizio senza basi scientifiche e non alla portata dell’uomo. In sintesi un accordo per perpetuare l’apparenza che si faccia qualcosa a fronte di gravi spese pubbliche, con un continuo rimando a scadenze future.

Quindi cosa possiamo fare?

Non resta che perseguire la strategia dell’adattamento per limitare gli eventuali danni conseguenti al cambiamento climatico antropico o naturale che sia. Essa consiste nell’identificare gli effetti dannosi più probabili, studiare e progettare interventi graduali di adattamento e protezione. È una strategia che l’uomo ha sempre percorso e ha notevoli vantaggi: interventi validi indipendentemente dalla causa antropica o naturale del fenomeno; interventi mirati, con tempi di intervento congruenti con l’insorgere dei danni, con buona probabilità di successo su problemi in generale già esistenti. Strategia valida anche se unilaterale. Si recuperano gli eventuali effetti positivi. Come esempio si può pensare all’Italia: negli ultimi decenni l’Italia ha speso diverse decine di miliardi di euro per la strategia della mitigazione, in particolare per incentivare le fonti rinnovabili elettriche, gli stessi soldi avrebbero potuto essere impegnati per la protezione del suolo in particolare per evitare danni provocati da alluvioni ed erosioni del territorio.

Condividi su:

Continua a leggere

Maifredi tiene a battesimo il calendario di Beppe Rota
Nel 2016 si scopre l’ultimo affresco della chiesa di San Defendente