Tempi duri per i cattolici nel mondo. Anche viaggiare diventa rischioso, soprattutto in certi paesi, dove l’estremismo sembra stia crescendo. Lo dimostra quanto accaduto recentemente a don Valentino Salvoldi, sacerdote Fidei donum, originario di Ponte Nossa, tornato dal Bangladesh con una brutta esperienza da raccontare. È lui stesso a parlarne sul suo sito internet.
«Per tre mesi, cinque volte al giorno (cominciando dalle cinque del mattino) sono stato inondato dalle preghiere gridate dalle migliaia di minareti di Dakka – scrive don Salvoldi –. Invece di percepirle come grave, disarmonico disturbo, ho cercato di interpretarle come invito a mettermi anch’io in preghiera. Dopo l’uccisione di un nostro connazionale a Dakka (il cooperante Cesare Tavella, morto in seguito a un agguato il 28 settembre, ndr), qualche amico mi consigliava di rientrare in Italia, ma io ho scelto di restare tre mesi nascosto in seminario. Da lì, mi sono dovuto spostare nel Nord del Paese, per un corso di due settimane a Nyamensing».
È nel viaggio di ritorno a Dakka, la capitale del paese, che sono iniziati i problemi. «Viaggiavo in auto con un sacerdote e con una guardia – prosegue don Salvoldi –. Mentre stavo raccolto in preghiera con gli occhi chiusi, ho sentito un urto tra l’auto e non so cosa, e subito dopo eravamo circondati da una folla minacciosa. L’autista è riuscito con decisione e con velocità a disimpegnarsi e rompere l’accerchiamento. Ma dopo pochi chilometri eravamo attesi e di nuovo circondati da gente che aveva grosse pietre nelle mani. Di nuovo la prontezza e la decisione dell’autista ci ha consentito di metterci in salvo. Dopo il terzo blocco abbiamo imboccato la boscaglia, nascosta ed abbandonata l’auto, e abbiamo raggiunto una via secondaria. Da lì, nascondendo il mio volto dalla pelle bianca, abbiamo preso i risciò-bicicletta per dodici ore e ci siamo salvati».
Don Salvoldi racconta anche un episodio accaduto in aeroporto, che dà il titolo all’articolo postato sul suo sito: «Remove the cross» (togli il crocefisso). «In fila per imbarcare i bagagli, sento la frase: “Remove the cross”. Tolgo la croce dall’occhiello della giacca perché lo impone la legge e perché la croce viene percepita come intollerabile provocazione», scrive il sacerdote. Quanto accaduto ispira più di una riflessione: «Ricordo ancora con piacere i tre mesi in cui insegnai in un Paese totalmente musulmano, il Pakistan – a Karachi – nel 1985. Alcuni studenti mi avevano aiutato a dare un senso ai disordinati capitoli del Corano, così che avevo potuto scrivere “Islam, a people in prayer”, suggerendo anche come trarre frutto dalla rivelazione islamica. Oggi non ripubblicherei più un libro del genere, di fronte al crescere di integralismo e fondamentalismo nel mondo islamico. In questi giorni invece ho pubblicato un libro («Immigrati: pedagogia dell’accoglienza», ndr) che, sul problema dell’immigrazione in Europa, prospetta una “terza via” diversa sia dal rifiuto che dall’accoglienza fuori controllo».
Don Salvolfi prosegue: «Il tipo di vita che sto conducendo, mentre mi apre continuamente nuovi orizzonti mi aiuta, da un lato, ad essere sempre più critico ed esigente, dall’altro a mostrarmi sempre più determinato nel proporre le seguenti riflessioni: il mondo sta sviluppandosi a velocità troppo diverse a seconda delle diverse nazioni; ignorare una cultura porta all’impossibilità della reciproca comprensione e del mutuo aiuto; l’umanità non sta marciando verso il “villaggio globale”, ma sta frammentandosi sempre più».