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Voce ai migranti ospiti a Rovetta

Il termine «migranti» è sulla bocca di tutti. Siamo abituati a sentirne parlare e a parlarne, sono persone che ormai fanno parte della nostra vita quotidiana, ma rimangono sempre senza volto e senza alcuna identità. È innegabile: il nostro futuro sarà anche il loro. Per cercare di conoscere meglio la loro realtà, abbiamo scambiato amichevolmente due chiacchere con due ragazzi (R. e T.) che risiedono attualmente presso la struttura d’accoglienza in gestione alla cooperativa Ruah a Rovetta.

Ci risponde per primo un diciannovenne del Bangladesh.

Cosa ti ha spinto a venire in Italia?

«Io sono induista, ma il Bangladesh è un paese prevalentemente musulmano (88,7%), quindi la vita per noi, tra discriminazioni e abusi, non è per niente semplice. Mio padre aveva un terreno nel paese in cui vivevamo, ma quando morì un gruppo di musulmani cercò di farmi firmare un documento per il trasferimento di proprietà torturandomi e infine ce lo portò via. Partii per cercare un Paese che mi accettasse nonostante il mio orientamento religioso».

Come è stato il tuo viaggio?

«Prima di decidere di venire in Italia, sono stato a Dubai, in Turchia e in Libia. Anche in questi paesi la sopravvivenza era incerta ogni giorno, soprattutto in Libia dove tutti noi migranti abbiamo incontrato ostilità e sfruttamento. Da qui all’Italia ho viaggiato su un barcone, sono stato fortunato perché sono arrivato vivo mentre molti altri sono caduti in mare».

Cosa fai qui al centro?

«Abbiamo molte attività: la struttura la gestiamo noi, pulendo, cucinando e svolgendo altre mansioni domestiche; seguiamo alcuni corsi professionali (falegnameria, panificazione…) e svolgiamo volontariato sul territorio».

Quali sono i  tuoi piani per il futuro?

«Adesso non posso sapere cosa il futuro mi riserverà. So solo che chi parte non affronta i rischi che il viaggio comporta senza un valido motivo. Ogni giorno io prego Dio affinché tutti coloro che sono in mare giungano sani e salvi sulla terraferma e possano ottenere lo status di rifugiati per potersi ricostruire una vita».

Come secondo intervistato, ci stupisce trovare un solare giovane ventenne bengalese che, come racconta, ha iniziato la sua odissea a soli sedici anni.

Perché hai abbandonato il tuo paese?

«La mia vita è stata difficile sin da subito: mia mamma è morta quando avevo solo un anno, e nella mia “nuova” famiglia non ero ben voluto. A 16 anni ho lasciato casa e ho iniziato un viaggio interminabile alla ricerca di un posto dove potere vivere e lavorare. Sono andato nella capitale, Dhaka, in Pakistan, in Sudan e in Libia, dove ho lavorato in un ristorante, maltrattato fisicamente e senza ricevere la paga».

Come hai viaggiato?

«Dalla Libia all’Italia ho viaggiato su un misero gommone con altre 70-80 persone».

Quali sono i tuoi impegni quotidiani?

«Ora sto studiando per sottopormi agli esami di terza media: la mattina studio alle Scuole Medie di Clusone, il pomeriggio frequento un corso di italiano e faccio i compiti, con l’aiuto di due ragazze di quinta superiore dell’Istituto Fantoni».

Quali sono i tuoi progetti per il futuro?

«Vorrei semplicemente iniziare a vivere una vita tutta mia, perché ora non ho più niente!»

Tutti, favorevoli o contrari rispetto la loro permanenza sul territorio, devono prendere atto del fatto che le persone straniere siano presenti anche nelle nostre piccole comunità e che solo con la collaborazione collettiva ciò che ora può apparire un problema potrà trasformarsi in un’opportunità di arricchimento reciproco.

Questo è un articolo realizzato attraverso il progetto «Saranno reporter» attivato con l’Istituto d’Istruzione Superiore Statale «Andrea Fantoni» di Clusone. Chi scrive è un ragazzo o una ragazza di quarta liceo che sta muovendo i primi passi nel mondo del giornalismo.

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