«Il Partito Democratico manterrà sempre una sua originalità. È un partito di centrosinistra, che ogni tanto può avere posizioni più di centro o più di sinistra, ma quello è il suo ambito. Quindi sarà sempre una via di mezzo. Quanto sarà autorevole dipende da chi sarà formata la leadership e da quanto riesci a far breccia nell’opinione pubblica con due o tre contenuti molto chiari.» È questa la convinzione di Jacopo Scandella iscritto al Partito Democratico dal 2007, anno della sua creazione, e consigliere in Regione Lombardia dal 2013. Con lui ci confrontiamo sul risultato del PD alle elezioni politiche del 25 settembre.
«Noi negli ultimi nove anni siamo stati al governo con un po’ tutti: da Monti, ai 5 stelle, fino ad arrivare a Draghi. Questa scelta a livello elettorale la paghi. Perciò il PD è diventato il partito della responsabilità, che si è assunto gli oneri di guidare il Paese in una situazione difficile, per cui era abbastanza naturale che a livello elettorale non ci portasse ad avere risultati importanti. Ovviamente se il centrodestra sta unito noi dobbiamo allargare il consenso e le alleanze, altrimenti non siamo competitivi, né a livello locale né a livello nazionale. Per questo io sono favorevole a dialogare con tutti. Perciò l’ambizione del PD deve essere quella di diventare baricentro di una coalizione larga. Questa è la nostra vocazione, altrimenti rischiamo di essere il punto di riferimento solo dell’opposizione.»
Quindi secondo lei i problemi principali della sconfitta elettorale alle politiche del 25 settembre sono stati due: stare al governo e non essere stati in grado di creare delle alleanze ampie?
«Stare al governo non significa sempre che poi devi perdere. Però il gruppo dirigente del PD che ha governato in questi nove anni difficili non aveva più la credibilità per espandere il consenso oltre lo zoccolo duro che apprezza il nostro profilo e che per fortuna esiste. Quindi serve una leadership rinnovata, più giovane e più fresca che ha la possibilità di ricreare una nuova attrattiva per il PD. L’altro motivo è che con questa legge elettorale non puoi pensare di presentarti da solo. A maggior ragione quando intorno ci sono grossi partiti che non vogliono stare con il centrodestra, ma che non si candidano nemmeno con noi. Io spero che la sconfitta di tutti gli altri, escluso il centrodestra, faccia capire che bisogna dimostrare più disponibilità, rispetto a quanto è stato fatto finora, per creare una vera alternativa al governo Meloni.»
Ma qual è la responsabilità di Enrico Letta in questa sconfitta?
«Lui ha provato a giocare la campagna elettorale nell’uno contro uno con Meloni: evidentemente in questo ha perso. Però nei contenuti il programma che Letta ha preparato era all’avanguardia. Però è passato solo il messaggio che eravamo contro la destra e non avevamo nessuna proposta. Purtroppo, nei vari gazebo in molti ci hanno fatto notare questo. Invece nella comunicazione
passare le differenze tra il PD e il centrodestra su temi importanti come l’Europa, l’ambiente e i diritti. Letta ha fatto bene a polarizzarle, anche se è arrivato solo il messaggio di votare il PD altrimenti vinceva la destra e questo è stato un errore della campagna elettorale, perché non siamo stati in grado di comunicare i nostri contenuti e dettare la nostra agenda, così che gli altri fossero costretti a rincorrerci.»
E come si spiega che anche in provincia di Bergamo il PD prenda più voti nei comuni con redditi medi più alti?
«Sicuramente il Partito Democratico prende più voti in città e nei comuni medio-grandi. Però non è un partito elitario: prende sempre milioni di voti e in Lombardia è votato dal 19% degli elettori, quindi resta un partito popolare anche se non così popolare come lo vorremmo. Io penso che c’è una fetta di elettori che se tendenzialmente sta bene e vede il futuro con più fiducia che preoccupazione si pone a tutela del sistema e il PD è stato il partito che più ha rappresentato la difesa dello status quo. Questo naturalmente non piace a chi non sta bene e vorrebbe vedere cambiare le cose. Credo che grazie al PD in questi anni difficili, dalla crisi economica, alla guerra, passando per la pandemia, le differenze sociali siano cresciute meno che in altri Paesi, come gli Stati Uniti con Trump. Però questo non è stato sufficiente per ampi strati della popolazione. Questo sicuramente è un tema importante. La sfida è dimostrare alla gente che il programma del PD è vantaggioso anche per tutti quelli che oggi si sentono esclusi. La prossima segreteria del partito dovrà lavorare in questa direzione.»
Perciò è d’accordo con Stefano Bonaccini che al Partito Democratico serve una continuità radicale?
«Penso che la prossima segreteria debba esprimere una discontinuità. Dobbiamo presentarci con facce nuove che rappresentino una novità. Dal punto di vista delle idee credo che già in questa campagna elettorale sia stato seminato molto. Non ritengo che il PD deve cambiare i suoi contenuti. Serve una capacità maggiore nell’indicare due o tre punti precisi che raccontino bene quali sono i nostri valori e le nostre priorità. Questo sarà il compito della segreteria. Inoltre, vanno modificati i processi: il PD deve aprirsi di più alla gente, dandole più potere possibile. Tutto questo è ciò che serve per dare al partito una rinfrescata: se non ci si rilancia si muore.»
Bonaccini, inoltre, dice che il Partito Democratico deve pescare la sua classe dirigente negli amministratori locali. È d’accordo?
«Sì. Oggi nel PD c’è un soffitto di cristallo oltre al quale non conta tanto quanto sei riuscito a farti apprezzare a livello territoriale per il lavoro che fai e per il consenso che susciti tra la gente, quanto più i rapporti che riesci a costruire a Roma. Questo va assolutamente cambiato e non è un problema solo del nostro partito. Anzi va recuperata la capacità di creare fiducia a casa nostra. Questo deve diventare il criterio principale con cui andremo a costruire la classe dirigente. I sindaci sono quelli che meglio di tutti sanno fare questo. Quindi sono d’accordo: una nuova infornata deve venire dagli amministratori locali.»
Ha qualche nome?
«Ce ne sono tantissimi. Uno dei motivi di straordinaria ricchezza del PD sono le persone. La qualità degli amministratori che esprimiamo a livello locale è molto alta. Non è un caso che governiamo la stragrande maggioranza dei comuni medio-grandi. A quel livello il cittadino vota il candidato. Quindi i nomi. Per il sud Antonio Decaro, sindaco di Bari: lui unisce l’essere orgogliosamente barese e un grande spirito d’iniziativa e di fare. Per il centro Matteo Ricci, il sindaco di Pesaro: è uno che politicamente ci vede. È stato il primo che è riuscito a fare una collaborazione con i 5 stelle. È molto sveglio. Invece per il nord, oltre a Bonaccini, Pierfrancesco Maran, l’assessore all’urbanistica del comune di Milano.»
Però ha fatto il nome di quattro uomini. Quindi ha ragione Paola De Micheli che nel PD c’è un problema di misoginia?
«Questa è una domanda che mi faccio molto spesso. È vero che non abbiamo mai avuto una segretaria donna, ma è altrettanto vero che abbiamo avuto donne in ruoli apicali: presidenti di regioni e capogruppo in Parlamento. Per cui penso che si è preparato il terreno perché nel PD emergano le donne. Per cui aggiungo Elly Schlein che ha un’energia pazzesca, anche se formalmente oggi non è ancora rientrata nel partito, e Irene Tinagli, parlamentare europea e vicesegretaria del PD. Magari sarà proprio questo congresso la volta buona per una donna alla guida del PD.»
Non pensa che con Meloni vi siate fatti sorpassare a destra su questo tema?
«Non penso che Meloni sia stata votata perché è donna, ma perché nel centrodestra c’è stato un notevole travaso di voti verso di lei. Questo perché ha una credibilità data dal fatto che negli ultimi anni è sempre stata all’opposizione su tutto. Oltre a lei, in Fratelli d’Italia non c’è molto spazio per le donne.»
Lei ha parlato molto di futuro, ma esisterà ancora il PD domani?
«Sì. Oggi il PD sconta una stanchezza e uno scarso entusiasmo. Ma questo non è irreversibile: le stagioni politiche si susseguono, cambiano e il partito ha tutti gli strumenti per rigenerarsi e cambiare per presentarsi agli elettori rinnovato. Quindi io sono fiducioso che il PD manterrà il suo ruolo di base per un’alternativa al centrodestra. Perché è un partito contendibile, che si dà la possibilità di cambiare e non vive solo della luce del proprio leader. Perciò non è assolutamente il momento di sciogliere il Partito Democratico e non serve cambiare né simbolo né nome. Sarebbe soltanto un regalo ai nostri avversari.»
Fare il congresso e insieme preparare la campagna elettorale per le regionali vi svantaggerà qui in Lombardia?
«Io spero che il congresso si esaurisca prima delle regionali e ci sia un nuovo segretario, così che il partito si possa presentare con una veste rinnovata. Anche se il PD lombardo ha un’autonomia e delle sue figure, indipendentemente da ciò che succede a livello nazionale. In particolare, questa volta noi ci dobbiamo concentrare sui temi regionali. Per esempio, dobbiamo dare una risposta al problema di un sistema sanitario che mantiene delle eccellenze e dei migliori ospedali d’Italia, ma che non riesce a garantire una cura ed un’assistenza adeguata a una larga fetta di persone. Dobbiamo discutere di Fontana, di quanto è successo in Lombardia in questi cinque anni, di come va migliorato il sistema dei trasporti e risolta la questione dell’inquinamento. Noi siamo la Lombardia, siamo una regione che ha tutte le carte in regola per fare molto di più. Perciò vanno cambiate le politiche. È chiaro che Fontana non è in grado perché è mediocre. Allo stesso modo non è in grado il suo partito, come ha dimostrato in questi dieci anni di governo regionale, in cui tutti gli indicatori sono peggiorati. Siamo passati dal 96° al 145° posto nell’indice europeo delle competitività regionali. È stato un disastro.»
Ma non pensa che la figura di Carlo Cottarelli come aspirante governatore sia stata bruciata dalla sua sconfitta nel collegio uninominale di Mantova e Cremona?
«Questa era un’idea di Letta: Cottarelli doveva fare l’esperienza delle elezioni politiche e del Parlamento per poi essere il candidato governatore in Lombardia. Nonostante la sconfitta contro Santanchè è stato eletto al Senato nella quota proporzionale. Oggi è ancora uno dei nomi che resta in campo per la Regione, perché la valutazione su di lui e sulla sua competitività non va fatta sul risultato del collegio uninominale. Però, un ragionamento approfondito va fatto ed è quello che stiamo facendo in questi giorni.»
Per concludere: Jacopo Scandella vuole continuare la carriera in Regione Lombardia o sfondare il soffitto di vetro a livello nazionale?
«Quando ho iniziato a fare politica il mio obiettivo era fare qualcosa di buono per il mio territorio, quindi la Regione ti può permettere di fare molto in questa direzione. Perciò la mia ambizione più alta è quella di vincere in Lombardia e acquisire qualche incarico di responsabilità in più per portare a compimento l’esperienza di questi nove anni, che mi ha consentito di capire dove si può realmente incidere per migliorare la situazione. Quindi la mia intenzione è quella di ricandidarmi alle elezioni regionali. Detto questo, il lavoro politico all’interno del partito non smetto di farlo. Molte volte sono stato una voce critica a cui piace fare battaglia per sfondare quel soffitto, perché penso sia utile farlo con coraggio. Se hai paura del confronto con le persone, di misurarti con il consenso o di indispettire una figura che ha un incarico importante, dal mio punto di vista hai perso ogni possibilità di cambiare le cose. E finché c’è la voglia di cambiare la politica è un bel posto, ma quando questa si trasforma in volontà di mantenere la propria poltrona è ora di dire avanti un altro.»