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Dall’Uruguay a Venezia, un prete in mezzo al gregge

«Pastori con l’odore delle pecore»: usa le parole di Papa Francesco per dire cosa significhi per lui essere prete. Don Piero Legrenzi, 73 anni, di Villa d’Ogna, è sacerdote da quarant’anni. La sua vita è stata sempre in mezzo al gregge. Uruguay, Albania, Kosovo: a  fianco dei poveri, vicino agli ultimi. Ora è alla Caritas di Venezia. In questi giorni ha lasciato la Laguna per salire di nuovo tra le montagne dell’Alta Val Seriana: la sua comunità d’origine lo voleva festeggiare.

Don Piero è stato ordinato in Uruguay. Un bergamasco che diventa prete in Sudamerica è già una storia da raccontare. «Tutto è cominciato quando ero all’ultimo anno di Teologia, a Padova, con i frati minori conventuali – spiega -. A un certo punto ho iniziato ad aprire gli occhi: anche quando venivo a Villa d’Ogna vedevo tutta questa gente nelle fabbriche tessili e ho capito che oltre gli studi c’era qualcosa di molto importante e volevo conoscere queste realtà. Allora ho fatto una richiesta insolita per quei tempi, eravamo nel 1967: lavorare in fabbrica. E sono andato a Porto Marghera. Ero con un gruppo di preti e seminaristi operai, scaricavo sacchi di fertilizzante».

Sono anni difficili, in piena contestazione. Una scelta come questa può creare tensioni. L’esperienza si conclude. «Uscito di fabbrica, mi hanno mandato a Milano come cooperatore di un oratorio e lì ho conosciuto un frate che era stato in Uruguay. Mi ha detto: “Piero, lascia perdere tutte queste cose. In Uruguay c’è un vescovo con il quale collaboro che ha bisogno di preti”. Va bene, ho detto, vado per due anni a vedere com’è la situazione poi si deciderà».

«In Uruguay, anche se non ero prete, mi è stata assegnata una parrocchia di un paesino di campagna. Due anni dopo ho deciso di diventare sacerdote. Il vescovo voleva ordinarmi nella cattedrale. Ho detto: “No, ho vissuto con questa gente nel paesino di campagna e mi sembra giusto ricevere questo sacramento in mezzo a loro”». In Sudamerica don Piero è rimasto fino alle soglie del 2000. Ha fondato asili nido, costruito saloni multiuso, creato una cooperativa di apicoltori. Nel primo periodo si è trovato anche a vivere gli anni difficili della dittatura militare.

«Nel 1999 ho chiesto io il rientro in Italia per un anno sabbatico. Mentre ero qui casualmente mi sono trovato in una concelebrazione per delle cresime con un monsignore della Curia di Bergamo, che mi ha proposto di andare in Albania a coordinare tre campi profughi gestiti dalla Caritas. È stata una conversazione della domenica mattina, il venerdì successivo ero già in Albania». Poco tempo dopo don Piero si sposta in Kosovo, dove è appena finita la guerra. È uno dei responsabili di un progetto che coinvolge Comune di Bergamo, sindacati e Caritas. «Siamo riusciti a ricostruire 430 case e anche una scuola che era stata completamente bruciata, costata un miliardo a quel tempo», ricorda.

Proprio in Kosovo avviene l’incontro che lo porterà a vivere una nuova esperienza. «Ho conosciuto il direttore della Caritas Triveneta. Nel 2002 sono tornato per un breve periodo in Sudamerica, ho parlato con il vescovo perché sono ancora incardinato nella diocesi in Uruguay, e ho avuto il suo consenso per operare con la Caritas di Venezia. Attualmente sono negli uffici centrali, vicino a piazzale Roma. Ci occupiamo della prima accoglienza: tutti i giorni c’è la processione di gente affamata, senza tetto. Stiamo cercando di aiutare il più possibile. Gestisco anche un dormitorio per senza fissa dimora».

Quarant’anni in giro per il mondo, cosa significa essere prete per don Piero Legrenzi? Risponde così: «Il sacerdote deve essere il servitore della comunità. Ho avuto sempre questo filo conduttore. Ho creduto nel servizio, ho cercato di praticarlo, ho cercato di capire che non si può essere cristiani in forma individuale, ma siamo cristiani quando siamo comunità e ho creduto sempre in una chiesa che fosse al servizio dei diseredati, dei più bisognosi, di una chiesa che, come dice Papa Francesco, possa mettersi in mezzo al gregge per sentire l’odore delle pecore».

L’intervista completa:

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