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Quando il parroco di Rovetta con Fino salvò cinque ebrei

Braccati dai nazifascisti, durante la seconda guerra mondiale, gli ebrei non ebbero vita facile. Alcuni si salvarono grazie a persone comuni che non riuscirono a restare indifferenti davanti a quanto stava accadendo loro.

A pochi giorni dalla Giornata della Memoria ecco una storia inedita legata a cinque persone che si salvarono grazie al parroco di Rovetta con Fino, don Giuseppe Bravi.

È una delle novità che ci ha raccontato ieri sera a Decoder l’archivista Bernardino Pasinelli, impegnato da più di due anni in ricerche sugli ebrei confinati sul territorio orobico (leggi questo precedente articolo).

«Questa è una vicenda che ho potuto raccogliere grazie alle indicazioni dell’amico Camillo Pezzoli – spiega Pasinelli -. La sera della vigilia di Tutti i Santi bussarono alla canonica ben cinque ebrei: due uomini e tre donne (moglie e figlie di uno dei due). Vennero nascosti in una sala che esisteva nel corridoio del giardino e il parroco pensò al loro sostentamento grazie a quanto ebbe anche dalle suore Sacramentine che andava a confessare. Queste persone rimasero invisibili fino al 25 aprile data dopo la quale si stabilirono a Clusone in via Lattanzio Querena 11B, prima di raggiungere la Palestina da La Spezia. A distanza di una ventina di anni tornarono da Israele a Rovetta per incontrare don Bravi e il partigiano Bepi Lanfranchi (altra figura chiave della rete di aiuti per gli ebrei)». Di queste persone Pasinelli aveva già trovato traccia durante le sue ricerche. «Sapevamo – spiega – che erano stati confinati a Clusone, cittadina dalla quale si erano allontanati a fine ottobre 1943 facendo perdere le loro tracce.
Si tratta dei coniugi Brattspiees con le figlie Erta (sposata con Oscar Gerber rifugiato a Gandino con suo padre) e Lilli, sposata con il giovane veterinario Israel Szafran che è il secondo uomo. Facevano parte del gruppo di trecento ebrei stranieri che avevano lasciato l’Italia dal porto di Trieste per cercare di raggiungere la Palestina nel maggio del 1940, ma erano stati catturati dagli italiani a Bengasi e quindi riportati nel nostro Paese, prima nel campo di concentramento di Ferramonti di Tarsia in Calabria e poi confinati sul nostro territorio».

Corrispondenza con don Giuseppe Bravi

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