C’è una caratteristica della nostra società con cui tutti abbiamo a che fare anche se non ci accorgiamo di quanto possa essere preminente. State leggendo queste righe seduti in poltrona, oppure lo state facendo su un sedile di un treno? Anche se non ci date peso con molta probabilità siete per qualche verso in una situazione di comodità e se così non fosse è proprio di una condizione più confortevole di cui potreste sentire il bisogno.
Il comfort, dimensione anelata dall’uomo sin da quando ha dovuto fare i conti con la fatica, è il principio per cui vengono plasmati oggetti, prese decisioni ed evolve la tecnologia. Pensiamo anche solo allo sviluppo dei mezzi di trasporto: agli albori semplici vettori, oggi accoglienti salotti mobili. Proprio il comfort è da anni al centro dello studio dell’antropologo Stefano Boni, autore del libro “Homo Comfort” (Elèuthera) e docente di Antropologia culturale e Antropologia politica presso l’Università di Modena e Reggio Emilia. Boni, su invito della professoressa Francesca Forno (docente di Sociologia del consumi) ha preso parte all’ultimo incontro del quinto ciclo seminari sulla “Comunicazione sociale e sostenibilità” presso l’Università degli Studi di Bergamo e promosso dall’osservatorio Cores (Consumi reti e pratiche di economie sostenibili).
«L’umanità – spiega Stefano Boni – ha smesso di fare fatica. Tutti gli oggetti e gli ambienti vengono plasmati per rendere la vita confortevole. Significa che i sensi sono stemprati dalle asperità che sono dovute al rapporto diretto con la natura con la quale l’uomo non si relaziona più, non confrontandosi con le imprevedibilità». E il concetto di Homo Comfort si distanzia da Homo Faber: ovvero l’artigiano che forgiava con le proprie mani gli oggetti dalla materia. L’uomo è sempre meno produttore diretto e sempre più consumatore. «In questo scenario – continua Boni – siamo sempre più schermati dalla natura. L’esperienza con il mondo organico è minimale, la natura diventa un’icona una merce da comprare con la quale ci si rapporta solo quando è comodamente disponibile e una conseguenza è che non la conosciamo più. Una delle cose più gravi è che senza un monitoraggio costante dell’ambiente non si conoscono i danni inferti dall’uomo, non si percepisce più il cambiamento del clima e non riusciamo più a capire quanto sia dannoso il sistema produttivo attuale».
E l’incapacità di monitorare quanto sta accadendo potrebbe costarci cara. «Non viene affrontato – afferma Boni –, ma non è scontato un rischio di collasso del sistema in cui siamo immersi. Ci sono diversi indicatori che vanno presi in considerazione: pensiamo alla diminuzione dell’aspettativa di vita, all’estinzione di specie, all’inquinamento di aria e acqua. Per cercare di evitare di subire un collasso sistemico una via può essere quella di riappropriarsi dei saperi tecnici e riuscire a fare, a produrre quello che ci serve senza dovere dipendere dal sistema globalizzato». E ciascuno di noi ha un’arma potente: la capacità di scegliere cosa comprare. «Io preferisco – conclude Boni – dare del denaro a un artigiano che so come lavora piuttosto che foraggiare grandi gruppi. L’altra grande arma è ricominciare a fare per conto nostro».
A tal proposito può essere interessante scoprire la “Rete di economia solidale della bergamasca”.