Nel 2018, a Bergamo e provincia, nascevano 8,5 bambini ogni mille abitanti. Ben lontani dai dati del baby boom, ma il livello bergamasco era quello più alto della Lombardia.
Adesso, nel post Covid, Bergamo rischia di perdere “pezzi di popolazione” importanti: già una ricerca di Lavoce.info segnala che in provincia di Bergamo, “l’aspettativa di vita nel 2020 si riduce di 3,6 anni per gli uomini e di 2,5 anni per le donne rispetto alla media 2015-2017, attestandosi sui livelli registrati 15 anni fa”. Poi, una proiezione di ISTAT segnala che “i 428 mila nuovi nati in Italia che si erano ipotizzati per il 2020 alle condizioni pre-Covid-19, dovrebbero scendere a circa 426 mila nel bilancio finale del corrente anno, per poi però ridursi a 396 mila, nel caso più sfavorevole, in quello del 2021”.
In pratica, Bergamo e la sua provincia, nel corso di due anni potrebbero “perdere” quasi mille nuovi nati, condizione che, legata al consistente abbassamento dell’età media, condizionerebbe in maniera considerevole la demografia provinciale.
L’ISTAT somma i risultati dello shock occupazionale a quelli derivanti da incertezza e paura: in un territorio che nel giro dei due mesi “peggiori” per contagi e morti ha perso qualcosa come 6000 posti di lavoro (tra l’altro i posti più giovani, essendo quelli a tempo determinato, stagionali e in generale a chiamata), la ricaduta neonatale andrà quindi stimata in una percentuale ben superiore a quella nazionale (da -1,6% a -2,1% secondo le diverse varianti) sia per il 2020 che, soprattutto, per il 2021. Perciò, proseguendo il trend negativo in atto da diversi anni, l’ipotesi per la fine di quest’anno potrebbe attestarsi appena sopra quota 8000 (dagli 8546 del 2019) e scendere a circa 7500 nel 2021. Sempre che il dato della disoccupazione non “impazzisca” come prevedono alcune proiezioni, soprattutto se in autunno si ripresentasse la seconda ondata dell’epidemia.
“Le giovani coppie si sono trovate immerse in una storia di angoscia, paura e precarietà – dice Mario Gatti, segretario CISL di Bergamo. E questo non può non aver pesato nelle scelte riproduttive. Bisogna combattere lo stato di incertezza psicologico. La nostra natalità è già una delle più basse, sia a livello storico che assoluto rispetto a altri territori. Ma io temo quel che accadrà subito dopo, con gli effetti economici della crisi: dobbiamo lavorare per creare condizioni che consentano a chi vuole avere figli di poterli fare senza incontrare ostacoli di varia natura, sostenendo, insieme al lavoro, ogni misura che ridoni sicurezza e fiducia nell’avvenire. Permettere una conciliazione maternità- lavoro veramente realizzata, favorire i servizi di cura dell’infanzia. In Italia esiste un problema culturale: l’idea che i figli siano fatti tuoi e non siano anche una ricchezza collettiva”.
Il sindacato ha una responsabilità particolare in questi aspetti: attraverso la contrattazione aziendale e quella territoriale può apportare cambiamenti culturali al lavoro e alla conciliazione tra attività e famiglia, dando forza e spessore alle proposte che spesso nascono dal territorio e dalle sue diverse realtà . “A tal proposito proponiamo a Comuni, Ambiti, ATS, organizzazioni datoriali, Diocesi, Università la stipula di un Patto per la Famiglia, da cui nascano linee programmatiche per interventi misurati sui bisogni delle famiglie, in parte anche modulate sulle linee del “Family Act” che il governo sta mettendo a punto: dallo sviluppo dello smart working all’ampliamento dei congedi e dei permessi familiari, la flessibilità degli orari, l’introduzione di servizi e figure come la baby sitter aziendale o la banca delle ferie solidali, e fuori dall’ambito lavorativo, il rafforzamento della rete per i servizi ai minori e dentro e fuori dalla scuola, un portale condiviso sul lavoro di cura, e il sostegno alle maternità difficili. La contrattazione aziendale e territoriale – conclude Gatti – possono dare una mano concreta allo sviluppo della natalità e alla tranquillità delle famiglie”.