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BLACK STONE CHERRY – Kentucky


Raggiungono il quinto album da studio i Black Stone Cherry, quartetto americano proveniente proprio dal Kentucky e ormai diventato uno dei nomi di punta di un certo suono che negli ultimi anni ha conquistato una fetta importante del mercato discografico americano e non solo.Black-Stone-Cherry-2016

Partiti come una southern hard rock band i nostri hanno via via modificato il proprio approccio, cosa questa riscontrabile soprattutto in veste “live”, trovando una formula che gli ha permesso di arrivare ad interessare una fascia di pubblico che difficilmente avrebbero raggiunto se avessero continuato sulla scia dei primi due dischi. Da un mio punto di vista personale, se questo ha sicuramente permesso ai Black Stone Cherry di allargare a dismisura il proprio seguito, ha dall’altro lato un pochino “standardizzato” la band, facendogli perdere alcune delle sue peculiarità che stavano alla base dei già citati primi due album. Ritengo infatti “Folklore and Superstition” del 2008 il loro capolavoro, un fantastico disco di robusto southern rock con splendide canzoni e senza neanche un attimo di calo, a mio avviso uno dei migliori dischi del nuovo millennio. Ma occupiamoci del nuovo lavoro, che fin dal titolo potrebbe fare pensare ad un ritorno alle atmosfere degli inizi, cosa che invece avviene solo forse a livello di intenzioni e poco più, come ben evidenziato dalle due canzoni che aprono il disco “The Way Of The Future” e “In Our Dreams”, molto più vicine agli Alter Bridge e ai Nickelback che a qualsiasi forma di southern rock. Ma non fraintendetemi, i Black Stone Cherry di oggi sono un’ottima band di hard rock moderno, pezzi come “Soul Machine”, “Hangman” e “Rescue Me” ( con tanto di intro gospel ) sono riuscitissimi, molto muscolari e destinati a travolgere tutto quello che trovano sulla loro strada. Ma è quando la tensione cala un pochino che secondo me viene fuori il meglio del quartetto guidato alla grande da Chris Robertson, un cantante che riesce a dare il meglio di se in momenti come “Long Ride”, in cui può dare libero sfogo ad un cantato più melodico e meno “spinto”, cosa che si può benissimo riscontrare anche in “Born To Die”, uno dei momenti più riusciti dell’intero lavoro e nel pezzo di chiusura del disco, “The Rambler”, un brano acustico che ci riporta questo sì agli inizi della band.  Meritevole di menzione è anche la cover di “War”, classico Motown già reso in maniera molto più rock da un certo Bruce Springsteen e che nella versione dei BSC diventa un terremotante pezzo di hard rock. Un disco solido questo, abbastanza in linea in con il precedente “Magic Mountain” e destinato ad accrescere ancora di più la fan-base dei quattro giovanotti del Kentucky.

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