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«Mio padre musulmano, io prete: cosa penso di Islam e Cristianesimo»

Don Nur El Din Nassar: nel nome c’è già tutto. Il suo essere un prete cattolico, per via di quel don, e le sue radici egiziane, per via del papà. Sacerdote della diocesi di Novara, cresciuto a Domodossola, ha maturato la sua vocazione sulle nostre montagne, seguendo don Valentino Salvoldi, teologo di Ponte Nossa, in alcune esperienze di preghiera e condivisione.

In questi giorni è tornato in Val Seriana per un breve periodo di riposo, sempre con don Valentino. Abbiamo colto l’occasione per dialogare di nuovo con lui, cercando questa volta di approfondire temi legati alle sue origini, ma anche intrecciati con l’attualità. La sua storia, del resto, ce l’aveva già raccontata nel 2013, appena ordinato sacerdote:

Il papà di don Nur, scomparso pochi anni fa, era musulmano e a Domodossola aveva fondato anche una piccola comunità islamica. Chiaro che il giovane sacerdote abbia la possibilità di guardare a questo momento storico da una prospettiva unica. Le tensioni del nostro presente, il confronto tra Islam e Cristianesimo, vivono in qualche modo anche dentro di lui.

«Proprio per l’esperienza del papà, che è stato uomo di fede, ma anche di amore, di misericordia, di pace, non voglio cedere alla tentazione dello scontro, ma guardare anzitutto a me stesso», esordisce don Nur. E si chiede: «In prospettiva di un dialogo, io sono un buon cristiano? Cosa mi dice il Vangelo? Sto vivendo il Vangelo, la mia identità cristiana, il donare la vita, andare incontro all’altro? Oppure mi arrocco facendo la parte, e il gioco a volte, della vittima: di qua l’innocente, di là il cattivo?».

Domande, è sottinteso, che ogni cristiano dovrebbe porsi. Soprattutto oggi. Don Nur rende poi ancor più esplicito il suo punto di vista: «Penso che bisogna ritornare a un’identità forte, anche con prospettive molto chiare. Serve una conversione che parta da noi, dal nostro cuore. Altrimenti, rischiamo di scadere in stereotipi, in facilitazioni, che sono davvero molto pericolosi».

Don Nur si sofferma anche sull’iniziativa della comunità islamica dopo i fatti di Rouen: «È stato bello questo incontro tra cristiani e musulmani, anche se magari la messa non era il luogo più felice. Ma è stato molto felice il fatto di incontrarsi e dire vogliamo costruire insieme un bene comune per affrontare le grandi sfide del nostro tempo. Dobbiamo chiederci: vogliamo andare divisi contro il terrorismo e la violenza o vogliamo imparare a diventare fratelli e dire che non abbiamo paura?».

Don Valentino Salvoldi è seduto accanto, ascolta con attenzione. Poi  aggiunge anche il suo contributo: «L’opportunità grande che i musulmani ci danno in questo momento è un invito a capire la nostra identità. Molti musulmani diventano fondamentalisti perché vedono un nemico nell’Occidente che ha perso l’identità e i suoi valori. Dicono: “Voi cristiani non avete dei valori, i nostri fratelli guardando voi perdono la loro identità, voi siete il nemico”».

Don Valentino Salvoldi
Don Valentino Salvoldi

Don Valentino, quindi, indica don Nur: «L’esempio di suo papà e sua mamma secondo me è fantastico: lei autenticamente cristiana, lui autenticamente musulmano. La situazione ideale per dialogare. Invece, in questo momento noi occidentali abbiamo perso la nostra identità, abbiamo perso i nostri valori. Ecco allora l’importanza di cogliere il momento di tensione con l’Islam, che in alcune espressioni diventa fondamentalista, come un invito a dire: dobbiamo essere cristiani. Non diventare buddisti o New Age, ma capire cosa ci porta il Cristo».

Il Cristianesimo, in questi anni, è sollecitato anche dalla sfida dell’accoglienza. Le migrazioni, persone che bussano alle porte dell’Occidente, sono un altro motivo di tensione. Anche in questo caso, la prospettiva di don Nur non è scontata: «Accogliere significa lavorare per creare uno spazio in cui io con l’altro possiamo vivere. Forse la cosa più sbagliata è che ci mettiamo nell’atteggiamento in cui uno lavora per costruire questo spazio e l’altro lo abita. Questa può essere una cosa buona in un primo momento, quando uno è più fragile perché arriva da lontano, da un’altra realtà. Giusto dedicare un primo momento a far star bene l’altro, metterlo a suo agio. Ma poi questo spazio comune bisogna costruirlo assieme. Anche chi arriva da un altro paese deve collaborare».

E non sempre, sottolinea il giovane sacerdote, la colpa è di chi arriva: «Molte volte non diamo neanche la responsabilità. C’è una certa faciloneria, ingenuità, di chi sbandiera diritti per tutti. Non mi è mai capitato uno che sbandiera doveri per tutti. Diamo l’occasione a chi arriva di poter costruire, di poter lavorare».

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