Album of the week

THE QUILL – Born From Fire

Attivi fin dal lontano 1995 gli svedesi The Quill arrivano con questo “Born From Fire” al disco numero otto, una carriera la loro che li ha visti in un certo senso precorrere i tempi senza però poi raccogliere i frutti che altri al posto loro hanno raccolto. Fin dal primo lavoro infatti hanno percorso i sentieri del classico hard rock di matrice seventies influenzati da band come Led Zeppelin, Black Sabbath, Uriah Heep, sonorità queste che negli ultimi 3/4 anni sono tornate prepotentemente alla ribalta, e che la fanno da padrone anche in questo nuovo lavoro che per l’occasione li ha visti tornare alla formazione dei due classici album “Silver Haze” e “Voodoo Caravan”, datati rispettivamente 1999 e 2002.

Magnus Ekvall alla voce, Christian Carlsson alla chitarra, Roger Nilsson al basso e Jolle Atlagic alla batteria con questo nuovo lavoro sono pronti a riguadagnare posizioni tra gli amanti delle sonorità più vintage, e magari farsi conoscere anche da quella fetta di pubblico che li ha ( finora ) colpevolmente ignorati. “Stone Believer”, scelto anche come primo singolo, apre il disco all’insegna di un hard rock fumante con la sezione ritmica Nilsson/Atlagic grande protagonista, tessuto su cui Carlsson cuce un riff poderoso ben sfruttato da Ekvall con un cantato evocativo che sfocia in un ritornello ipnotico e di presa immediata….grande inizio. “Snake Charmer Woman” è Black Sabbath al 100%, il riff di Carlsson sembra provenire direttamente dalla chitarra di Mr. Iommi, un furioso assalto che cede poi il passo alla lunga “Ghosthorse”, e anche qui il verbo del sabba nero è evidente, mid tempo minaccioso con break in cui Ekvall paga tributo a Mr. Osbourne. “Spirit and the Spark” è “stoner” allo stato puro, visioni psichedeliche e desertiche sulla scia dei migliori Kyuss, con un grande lavoro di Carlsson anche in fase solista. E se “Skull & Bones” punta sulla fisicità pura, gli 8 minuti e passa di “Set Free Black Crow” sono un viaggio nella psichedelia degli anni ’70 con Ekvall che piazza una delle migliori interpretazioni di tutto il disco. Da segnalare sicuramente anche “Unchain Yourself”, pezzo monolitico con un finale in crescendo in cui emerge ancora il grande lavoro di Carlsson, capace di far “sanguinare” la sua sei corde in maniera magistrale. Nota di merito infine per la produzione, “grassa” al punto giusto e per l’artwork, perfettamente in linea con quello che troverete all’interno del disco.

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