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«Da moltiplicare almeno per cinque i numeri ufficiali»

I numeri ufficiali che tutti i pomeriggi la Regione Lombardia, la Protezione Civile e l’Istituto Superiore di Sanità comunicano agli italiani “non rappresentano la realtà che il territorio di Bergamo sta vivendo. I numeri ufficiali raccontano solo una parte, una piccola parte, di una triste sequenza di decessi”. 

Ne sono convinti Roberto Rossi, segretario provinciale della Funzione pubblica Cgil, e Gianni Peracchi, segretario generale della Cgil bergamasca, sulla base delle informazioni raccolte tra i delegati sindacali e i propri lavoratori in decine di strutture sanitarie sul territorio. Lo hanno già detto chiaramente alcuni sindaci della nostra provincia, a partire da Giorgio Gori per il Comune di Bergamo: i morti sono molti, molti di più.  Nei numeri ufficiali vengono inseriti “solo” i decessi di persone a cui è stato precedentemente effettuato il tampone.

«Chi muore a casa, durante il trasporto in ospedale, nelle Rsa non è conteggiato nel numero dei morti ufficiali per il Coronavirus», sottolineano i due dirigenti sindacali. «Il dato vero lo avremo quando i Comuni bergamaschi pubblicheranno il saldo demografico al 31 dicembre 2020 e potremo confrontarlo con i saldi degli anni precedenti. Ma già oggi possiamo dire che i numeri ufficiali andrebbero probabilmente moltiplicati per almeno 5 volte».

Rossi e Peracchi si soffermano, poi, sulla gestione dell’emergenza da parte della Regione Lombardia, in particolare per quanto riguarda il territorio bergamasco. «Noi crediamo che parte del problema sia stata la gestione di alcuni presidi ospedalieri, che si sono rivelati un veicolo eccezionale di contagio, a partire dall’ospedale di Alzano Lombardo. Leggiamo dalla stampa sempre più testimonianze di cittadini della bassa val Seriana che inducono a pensare che i primi casi di infezione siano arrivati in ospedale diversi giorni prima rispetto ai primi casi dichiarati di contagio e alle conseguenti prime misure governative di contenimento, datate 23 febbraio. Questo ha determinato la diffusione del contagio nello stesso ospedale, poi a macchia d’olio sul territorio, in particolare colpendo i comuni di Nembro e Alzano Lombardo. L’ospedale non è mai stato chiuso, al contrario di quello di Codogno e non si è mai avviata una ricerca delle persone che nell’ospedale sono transitate nei giorni antecedenti l’ufficialità del contagio».

«Il problema – proseguono i sindacalisti – è che anche nei giorni successivi al primo Dpcm (Decreto del presidente del Consiglio dei Ministri) e alle prime disposizioni regionali, la gestione della maggior parte degli ospedali bergamaschi è stata difficoltosa: assenza di dispositivi di protezione individuale, sanificazione degli ambienti e delle ambulanze effettuata senza considerare tutte le possibili variabili, promiscuità negli stessi ambienti di pazienti sospetti di contagio con altri non contagiati. Assenza per moltissimi giorni di triage separati, a differenza di quel che è successo in Veneto».

Un approfondimento specifico, secondo la Cgil, va poi svolto in merito al personale sanitario, a cui «per un lungo periodo non sono stati effettuati i tamponi di controllo, persino in presenza di chiara sintomatologia: quanti familiari e altri cittadini avranno contagiato medici, infermieri, Oss, tecnici sanitari, fisioterapisti, senza neppure avere la certezza di essere portatori di Covid-19? Senza avere alcun vincolo di quarantena? E cosa dire delle altre strutture non ospedaliere, cioè della filiera socio-sanitaria, che assiste i più fragili, anziani e disabili e che pagherà il tributo più alto, proprio per la fragilità delle persone ricoverate o assistite e per la mancata tempestività nella risposta al contagio? Quelli che dovevamo preservare meglio, anche se fosse stata una ‘semplice influenza’? Stiamo parlando delle case di riposo, centri diurni sia per anziani che per disabili, servizi residenziali come le Rsd o le Css ed infine i servizi domiciliari. In questi luoghi il sentimento di abbandono è totale: mancanza di dispositivi di protezione individuale, nella stragrande maggioranza procedure di gestione organizzativa lontanissime da quel che servirebbe per evitare il contagio, pressione per mantenere servizi anche non essenziali che sono utili ma che, svolti senza le protezioni e con modalità corrette, sono stati causa di ulteriori contagi e probabilmente di decessi».

Alcune Rsa della nostra provincia registrano un numero di decessi impressionante. «Occorre continuare a tenere alta la guardia e intervenire sulle situazioni che presentano ancora pesanti lacune, perché l’emergenza non è finita. Troppo tardivamente la strategia regionale ha cambiato segno, aumentando i posti letto negli ospedali, anche richiamando la sanità privata a fare la propria parte, ma senza intervenire per potenziare il vero fronte del contagio: il territorio. La medicina del territorio, che non comprende solo i medici di base, è il tallone d’Achille della sanità lombarda. Una medicina che negli anni è stata ridotta, frammentata, voucherizzata, privata di una logica organizzativa unitaria. I ruoli delle Asl, poi Ats sempre più ridotti a mere agenzie, private di reale potere organizzativo per non parlare di quello gestionale, stanno dimostrando tutta l’inadeguatezza rispetto ad un fenomeno come questo. Auspichiamo, che non sia tardi, speriamo che oltre alle parole seguano fatti, modifiche organizzative e comportamentali reali», aggiungono Rossi e Peracchi.

«Speriamo non sia troppo tardi, per il territorio bergamasco e per tutti gli altri territori della Lombardia, Milano e l’area metropolita in primis, che non hanno raggiunto i nostri livelli di contagio – proseguono -. Lo speriamo per il resto del Paese. Pensiamo che arriverà poi il tempo di tirare le somme di quanto è successo e certamente individuare anche le responsabilità politiche ed organizzative che hanno fatto di Bergamo un autentico lazzaretto. Occorre però che da qui alla fine dell’emergenza non ci si limiti a richiamare i cittadini al rispetto delle regole restrittive e ad aumentare le sanzioni per chi trasgredisce, ma occorre utilizzare lo stessa fermezza verso coloro che hanno ruoli di responsabilità nella gestione del contenimento del contagio».

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